Oggi 9 maggio 2021 la Cattedrale di Agrigento ha fatto da cornice alla cerimonia di beatificazione del giudice Rosario Livatino.
Barbaramente assassinato a soli 37 anni da esponenti mafiosi della “stidda” agrigentina sulla strada statale 640 il 21settembre del 1990, il giudice canicattinese ha dato testimonianza di grande coerenza tra la sua fede cattolica e il lavoro di magistrato. Negli anni in cui le indagini facevano emergere le complicità tra esponenti della criminalità organizzata, il mondo politico e la realtà economica agrigentina, ha portato avanti il suo lavoro di magistrato senza compromessi e al tempo stesso pretendendo il raggiungimento della verità nei processi, con un rispetto tutto particolare verso le persone deboli e vulnerabili.
Un’accelerata al processo di beatificazione è stata data da Papa Francesco che il 21 dicembre del 2020 ha autorizzato la pubblicazione del decreto riguardante il martirio aprendo la strada alla sua beatificazione. Il processo, iniziato nel 1993 e chiuso nel 2018, era già stato auspicato da Papa Giovanni Paolo II che lo definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”.
Durante la sua visita apostolica ad Agrigento il 9 maggio del 1993, il Papa incontrò in forma privata i genitori del magistrato prima di presiedere alla storica messa celebrata sotto la Valle dei Templi di Agrigento.
L’incontro commosso con i genitori di Livatino, la testimonianza di una vita professionale e umana vissuta con rettitudine e senso del dovere, colpirono profondamente il Papa tanto da fargli pronunciare quelle forti parole dell’anatema
contro la mafia che tutti ricordiamo.
Non è un caso che la beatificazione sia avvenuta il 9 maggio.
Le 4000 pagine di testimonianze sulla vita e sulla santità di Rosario Livatino sono state decisive; a partire dai familiari e dagli stretti collaboratori per finire alle dichiarazioni rese da un mandante dell’omicidio e addirittura da un esecutore del
delitto. Come già era accaduto per Don Pino Puglisi nel 1993, la Santa Sede ha riconosciuto il “martirio”, quasi come i primi testimoni cristiani uccisi solo per la dichiarazione della loro fede. E in effetti usava un’agendina nella quale scriveva in calce la sigla s.t.d., acronimo di sub tutela dei, formula classica di coloro che si sentono perseguitati e fanno un atto di affidamento.
La motivazione è “in odium fidei”, in odio alla fede, in quanto dalle testimonianze è emerso che i mandanti dell’assassinio conoscevano la rettitudine e la fede irremovibile del giudice e si erano convinti che non avrebbe mai collaborato con la criminalità: un “santocchio” che frequentava quasi giornalmente la messa non avrebbe mai accettato compromessi con la mafia.
“Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” scriveva il magistrato nei suoi appunti ed è questo il suo testamento morale per vivere davvero la giustizia con coerenza piuttosto che pronunciarla.
Anna Capodicasa