La Valle dei templi.
Per la forza dell’abitudine che accomuna gli umani, questa espressione ormai così famosa rimanda alla suggestiva parata di templi dorici, quasi adagiata, in una postura di pace e maestà, su un rialzo
di terra, un affioramento di ruvida e tenera pasta calcarea che è dall’inizio dei tempi la pietra di Agrigento, immobile di fronte, abbarbicata su due colline impervie digradanti al mare e a strapiombo sul lato opposto da dove si apre all’infinito il delirio dell’entroterra siciliano chiuso nell’ implacabile silenzio delle cose eterne.
Ma la Valle dei templi è anche altri luoghi: a Nord dei sacri delubri (dove si sviluppava l’abitato), sulle sponde e alla foce del padre fiume Akragas, o sottoterra, nel brulicare degli ipogei, un mistero nel mistero.
Altri luoghi, dunque.
DEME
Fra questi ce n’è uno, nella parte più orientale del sito, una pendice dove il giallo ocraceo del calcare cede al bianco, picchiettato di licheni come degli strass ante litteram di un’epoca che avrà avuto pure le sue vanità.
E’ il Santuario di Demetra sull’Acropoli della città greca.
Marezzato di arbusti e cespugli – troffe , come diciamo qui – di Timi Assenzi Malve Lentischi di quasimodiana memoria, e ancora Malve Ferule e Rute, Euforbie e Palmenane distribuiti nel ritmo scosceso della parete di roccia, questo cosmo di silenzio racconta del culto più antico e vero del
popolo che per secoli – i Greci, dico – riempì la “Valle”, non solo di edifici cari agli dèi, ma anche di quella ragnatela di sogni crudeli e favole non meno acri che chiamiamo Miti: il culto della Dea Madre.
Demetra, figlia di Cronos e Rea, dunque sorella del più noto Zeus, era la Diva della terra che genera e quindi sfama i viventi: dal suo grembo scaturivano i Cereali (da Ceres, la Demetra romana), innanzitutto il Grano, qua in Sicilia, e poi l’orzo e l’avena, ma pure ogni pianta che assicurasse il nutrimento, il quale non è semplicemente magnare, ma molto di più: è comprendere.
Fra queste, il melograno dai fiori arancio e dal frutto cremisino, quella tonalità del rosso che appunto si chiama granata (caro al popolo di Gianduia, ma questa è proprio un’altra storia).
Demetra: qui il suo santuario si declina in due poli, due momenti non disgiunti ma distinti: in alto, a dominare il profluvio di vegetali mediterranei, quello che fu il Tempio della dea: una costruzione in antis (insomma, con sol due colonne in facciata), esposta ad Est e preceduta dagli altari rotondi caratteristici di questo culto; oggi le fondazioni del tempio sono sovrastate dalla chiesetta normanna di San Biagio.
Curioso – ma forse no -: il santuario pagano e poi cristiano è a ridosso delle mura dell’ ex manicomio provinciale di età fascista, come a sussurrare che divino e santo stanno al limitare della follia.
E se la follia è mistero, è nella parte sottostante – quasi un catino scavato nella pietra – che questo trionfa: un enigmatico edificio addossato a grotte, una artificiale e due naturali, su più livelli .
Santuariofonti2
Dalle grotte sgorgava ACQUA, questa confluiva in vasche che sono ancora riconoscibili.
Un culto delle acque? E di quale epoca? Come sempre, nei luoghi antichi il tempo è multistrato: questo sacrario, a cui si arriva come discendendo in un Averno, fu forse approntato da chi precedette i Greci; questi lo svilupparono e definirono in fase arcaica e classica, poi fu ancora cambiato in età ellenistica.
Folti immani di rosmarino e scintillanti arbusti di Artemisia incombono sulla scala moderna che immette a questa parte rupestre del Santuario di Demetra; più giù ancora sta il Cimitero agrigentino.
Sospeso fra la follia e la morte (dimensioni non estranee alla Dea), il Santuario è un luogo muto: come gli antichi iniziati di Eleusi, chi ci entra può impararvi la sublime lezione del silenzio.
Gigi Montalbano
Condividi